Archive for agosto, 2006

Intervista a Yossi Bar

La quarta puntata ha come ospite Yossi Bar, presidente dell’Associazione della Stampa Estera in Italia nonchè corrispondente a Roma del quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth. Con lui abbiamo parlato dei recenti sviluppi in Medio Oriente, dell’antisemitismo in Italia, e dell’eterno dibattito sul conflitto arabo-israeliano.

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Intervista a Christa Peduto Langen

Ospite della terza puntata è Christa Peduto Langen, corrispondente in Italia della Westdeutsche Allgemeine Zeitung. Abbiamo parlato di Italia e Germania, di Berlusconi e Schroeder, di “grosse koalition”…e di questo spot televisivo.

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Prime osservazioni, tutt’altro che tecniche

Cosa può significare, per un podcaster amatoriale, il possibile passaggio dall”età dell’innocenza’ a una non meglio precisata maturità creativa? Se davvero era questa una delle mie prime curiosità prima di lanciarmi nella nuova avventura, posso dire di aver ottenuto, dopo due puntate di “Due occhi da straniero”, alcune risposte importanti.

La prima di queste risposte è che per ognuna delle difficoltà che forse avevo sopravvalutato (ma davvero si faranno intervistare? parleranno un italiano decente? riuscirò a cavarne fuori delle interviste sensate?) ce ne sono almeno altrettante che non avevo nemmeno previsto. Inizialmente, ad esempio, avevo pensato di registrare quasi sempre sui “roof garden” dei grandi alberghi, pensando di restituire attraverso i suoni almeno una parte di quel mondo fatato che sono le terrazze romane. E invece ho restituito solo il rumore del vento, che ha finito per infastidire la prima puntata.

E che dire della preparazione delle interviste? Non è difficile recuperare gli articoli dei corrispondenti, per porre poi loro delle domande puntuali, ma quasi sempre queste domande finiscono per portarmi fuori strada. Invece di sprofondare nelle viscere dei vizi dei miei compatrioti, o di scoprirne le virtù più insospettabili, sono spesso rimasto troppo in superficie, fuorviato dalla stretta attualità che poi – fatalmente – è l’oggetto di interesse di un giornalista. Sono giornalisti, non antropologi. E io, poi, non sono nemmeno un giornalista.

Ma non importa. In fondo, alla ovvia domanda off-the-record dei miei interlocutori (“Ma se non è per soldi, chi te lo fa fare?”) risponderei come ha fatto un famoso podcaster gastronomico a un recente convegno (“Faresti questa domanda a uno dei cinquecentomila maratoneti dilettanti che ogni anno si presentano ai nastri di partenza, sul ponte Da Verazzano di New York?”).

Per passione, certo. Ma soprattutto, proprio come i maratoneti dilettanti, per capire fino in fondo i miei limiti e le mie presunzioni. E per capire anche quanto questa maledetta “vita virtuale” che accompagna la vita del podcaster tra blog, forum, newsgroup, community ci fa perdere il senso della realtà, o quanto – magari – ci aiuta invece a capire meglio la benedetta “vita reale”, fatta di lavoro (quello che di solito rimane misterioso), famiglia (per chi ha la fortuna di averne una), scampoli di altro “tempo libero”, perchè  – sembra incredibile – ma esiste anche dell’altro “tempo libero”, possibilmente da destinare ad attività più sociali e meno autoreferenziali.

In questo senso sono soddisfatto. Rispetto ai progetti precedenti, con questo podcast posso aspettare con calma quando una puntata è “matura”, e questo è un grosso vantaggio, come direbbe il mio amico Bill Wadman.

L’altra cosa che mi ha sorpreso positivamente è il fatto che questi signori dall’accento improbabile ti fanno vedere le cose davvero da un angolo obliquo. L’esempio più lampante: prima di Italia-Francia ho sempre pensato che noi italiani avessimo una cultura sportiva, e soprattutto una cultura della sconfitta meno sviluppata dei francesi. Dopo l’incredibile pantomima giustificatoria allestita dai media transalpini sul caso Zidane (dove quest’ultimo è stato trasformato in eroe, e Materazzi nel carnefice, con il ghigno beffardo di Povlsen in sottofondo) ho pensato “ecco, per anni mi sono sbagliato sul conto dei francesi”.

Poi però ho ripensato alle parole di Dunglas: “Per me più della vittoria è importante l’uscita di scena di Zidane”.  E soprattutto alla sua frase precedente: “la Francia ha dei problemi molto più gravi dell’Italia. la nostra è una società bloccata”.

Ebbene, Zidane è forse l’unica figura umana, l’unica icona in grado di unificare ancora le due componenti della società francese, quella “metropolitana” e quella degli immigrati di seconda e terza generazione cui la quinta repubblica aveva promesso il miraggio di una integrazione sostanziale, che andasse al di là del riconoscimento di una nazionalità. Su molti francesi l’icona di Zidane (non l’uomo, o il calciatore) rende ancora efficace  l’illusione che questo tipo di società possa ancora essere edificata pacificamente. Per questo l’icona è sacra, non può essere infranta, proprio come una madonna russa.

E per proteggere l’icona dal più disgraziato degli incidenti, i francesi hanno messo la loro cultura sportiva in secondo piano. Noi italiani dovremmo provare a capirlo, piuttosto che accanirci contro la loro incapacità di perdere.

Un’ultima annotazione. Ho ricevuto molte email di complimenti per queste prime due puntate, e ovviamente rinnovo il mio ringraziamento. Un grazie particolare va a Visti da Lontano, che non solo rilancia queste interviste ma constituisce un insostituibile strumento di lavoro nel cercare di “prendere la temperatura” della stampa estera presente in Italia.

Prevedibilmente sono arrivate anche delle critiche alla sigla, giudicata troppo lunga, incomprensibile, melliflua. Magari la renderò più breve, ma non la cambiero’: si tratta infatti di una scelta affettiva, legata al film da cui è tratta, l’interminabile e incommensurabile “Heimat” di Edgar Reitz. Sono dell’idea che le critiche prevedibili non debbano essere accolte, dato che la loro previsione non ha influito “ex tunc” sulla definizione del format iniziale. Di questi problemi mi preoccuperò quando avrò un editore rispetto al quale esprimere una qualche forma di (orrore) “responsabilità”. Cioè mai.
 

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